Mogli, lesbiche, con un bambino. La battaglia quotidiana di una famiglia 'arcobaleno'

Inchiesta de L'ESPRESSO

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  1. mongolfiera
     
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    Sono migliaia le coppie di genitori dello stesso sesso che vivono discriminazioni quotidiane. Dall’andare all’estero per partorire a una burocrazia che riconosce solo la madre biologica. Fino alla scuola materna e alla chiesa di quartiere: ogni passo è una sfida a leggi e regolamenti che non conteplano l’omosessualità
    DI MICHELE SASSO


    Mogli, lesbiche, con un bambino. La battaglia quotidiana di una famiglia 'arcobaleno'

    Il loro “matrimonio” Giuliana e Laura l’hanno celebrato il quattro settembre. In quel giorno di fine estate sono andate a Palazzo Marino a Milano e sono diventate moglie e moglie. In realtà è stato certificato che sono “unite da vincolo affettivo”, ma loro sono una coppia e una famiglia già da tanto. Da quattro anni sono anche mamma e mamma e hanno deciso di praticare anche l’unica strada possibile, il registro delle unioni civili, nella speranza che questo pezzo di carta (finora senza validità giuridica) possa dare maggiore riconoscimento a loro figlio, Dario, nato grazie alla fecondazione eterologa, che compirà quattro anni a marzo.

    «Per questa primavera avevamo pensato anche al matrimonio all’estero. Ma per il momento aspettiamo. Se riusciamo a sposarci qui lo preferiamo», sorride Giuliana mentre si augura che le promesse del Governo Renzi in tema di coppie omosessuali prima o poi si avverino.

    Le due donne stanno insieme da tredici anni e non hanno mai voluto raccontare la loro storia. Da poco hanno sentito l’esigenza di far conoscere la vita di coppia di due donne lesbiche, le battaglie quotidiane, gli scontri con la burocrazia, la voglia di far crescere il loro figlio come un bambino con due madri.

    «Solo a 25 anni ho preso atto della mia omosessualità, due anni prima ho rischiato di sposarmi ma non volevo vivere da infelice», racconta Giuliana mentre siede su una panchina del parco nella zona nord di Milano. E prosegue: «L’omofobia peggiore è quella interiore. Per tanto, troppo tempo mi sono detta 'sono lesbica e non posso avere figli'. Ho dovuto affrontare tantissimi preconcetti che sono dentro di noi. Li abbiamo tutti, nascono dall’educazione, dalle convenzioni sociali, addirittura dalle favole con un mondo perfetto che si raccontano ai neonati».

    Inizialmente hanno lottato contro se stesse, contro l’idea e la voglia di essere mamme. «Non è possibile, sarebbe sbagliato, chissà se due donne possono educare un bambino», si ripetevano come un mantra quotidiano per tenere a bada la voglia di maternità.

    Grazie all’associazione di genitori omosessuali Famiglie arcobaleno (nata dieci anni fa per promuovere il dibattito pubblico su gay e genitori anche nel nostro Paese) hanno però scoperto l’ovvio: sono migliaia le coppie come loro, con gli stessi dubbi e le stesse esigenze, e i loro figli sono sani e sereni.

    ALL’ESTERO PER LA FECONDAZIONE

    Per diventare genitori hanno scelto la fecondazione artificiale. Meta: la clinica Ivi di Barcellona, in Spagna. «Una scelta quasi obbligata, in Italia è impossibile l’adozione per genitori dello stesso sesso. Noi volevamo un figlio tutto nostro e quindi abbiamo fatto le valigie e siamo andate all’estero». Spiega Laura: «Non abbiamo avuto dubbi e quando ho detto “Ci provo prima io”, dato che avevo già 33 anni, abbiamo iniziato l’iter per l’inseminazione intrauterina». Si tratta di una tecnica di concepimento assistito poco invasiva: si inserisce nell’utero un campione di liquido seminale nel momento corretto del ciclo mestruale.

    Per Laura però non è stato facile rimanere incinta. Dopo sei tentativi, tre anni di avanti e indietro dalla Catalogna, una valanga di ormoni e più di ventimila euro spesi la gravidanza ancora non arrivava. Rimettersi a cercare sul web altre soluzioni era l’unica strada e le due donne hanno deciso che questa volta a provarci sarebbe stata Giuliana. La nuova meta è la “Stork Klinik” di Copenaghen. Nella clinica danese hanno scelto di avere il seme da un donatore anonimo.

    «Vogliamo evitare che Dario cresca con aspettative sbagliate su una figura che non è un padre ma solo una persona generosa che ci ha aiutate a metterlo al mondo. Sappiamo che da grande ci rinfaccerà questa decisione, ma gli adolescenti rinfacciano qualunque decisione presa per loro», raccontano insieme mentre seguono con lo sguardo il bambino che gioca con gli altri coetanei.

    DUE MAMME PER L’ASILO

    La loro vita a tre è una corsa tra il lavoro, l’asilo di Dario e il ménage familiare. Giuliana oggi ha 40 anni e fa i turni in un centro commerciale mentre Laura, di un anno più grande, è una commessa nella catena di supermercati Esselunga. Incastri più o meno difficili: quando una è impegnata ci pensa l’altra. Se però la madre biologica non ha problemi a chiedere un permesso, per Laura è tutto più complicato: «Non mi hanno mai negato nulla, anche quando sono scappata in ospedale per il parto. Ma è una concessione, non un mio diritto. Sono tutti giorni di ferie e nessun permesso che invece come madre spetterebbe anche a me».

    Per l’anagrafe e per il resto del mondo l’unica madre è Giuliana, che ha partorito Dario e ha potuto dare il suo cognome. L’altra mamma non esiste. «La prima volta l’abbiamo realizzato quando ho consultato il sito del Comune di Milano: sul monitor c’era scritto che ero una madre “abbandonata” e quindi avevo diritto ad un contributo economico. La mia compagna non esisteva in nessun documento ufficiale» dice Giuliana con amarezza.

    Al momento di fare la prima carta d’identità per il neonato un’altra scoperta: allo sportello l’impiegato non capiva come non potesse esserci il padre e ha chiesto di portare un testimone. L’unica magra consolazione è arrivata con l’iscrizione all’asilo nido: prima posizione nella graduatoria grazie allo status di “abbandonata” di Giuliana e lista d’attesa saltata.

    Varcato il portone della scuola d’infanzia le educatrici le hanno sempre chiamate entrambe mamma, ma per andare a prendere il loro figlio Giuliana ha dovuto firmare una delega per la propria compagna. Ecco cosa significa essere genitori di seconda classe.

    Un’altra piccola discriminazione Laura che la racconta così: «La coordinatrice una volta mi fa chiesto:“Lei cosa ci sta a fare qui?”. Pensava che una madre potesse bastare e ignorava la mia presenza. Poi però le abbiamo spiegato il mio ruolo nella coppia e sono diventata anche rappresentante di classe».

    Alla scuola materna, partita a settembre, finalmente c'è stato un passo in avanti: invece della casella “padre” e “madre” la definizione di “genitore” e “genitore”. «Siamo consapevoli che viviamo in un paese arretrato, non ci aspettiamo nulla ma ci fa arrabbiare che qualcuno possa decidere della nostra vita. Per noi è un confronto continuo con le solite domande. Ci serve rispondere perché tra poco invece toccherà a Dario stesso rispondere, quando all’asilo arriverà il fatidico interrogativo: “Perché hai due mamme e nessun papà?”».

    La paura ricorrente per entrambe è che il loro bambino possa rimanere orfano di Giuliana e Laura (come genitore non biologico) non abbia nessun diritto né dovere nei suoi confronti. Per questo hanno deciso da subito di mettere nero su bianco un documento ad hoc che racconta la volontà e le scelte di crescerlo insieme.

    Si chiama lettera d’intenti ed è un vero e proprio diario che viene aggiornato con il ruolo di Laura: foto, documenti, prove che certificano il suo status di genitore di fatto. Lo consigliano come prima mossa le Famiglie arcobaleno e lo scopo è evitare che in caso di morte della madre biologica il figlio possa essere affidato ad altri, perché per il diritto italiano tutti i genitori come Laura non sono automaticamente tutori.

    IN FAMIGLIA NASCOSTO È MEGLIO

    Una famiglia fortemente voluta e un’altra da cui nascondersi o con cui lottare per farsi accettare. Ecco il paradosso di stare insieme e vivere la propria sessualità. Il primo scoglio da affrontare nasce spesso tra le mura domestiche. Anche per Giuliana e Laura non è stato facile spiegare il loro stare insieme.

    «Per mio padre la vita di Dario era già segnata: sarà un figlio infelice e gay, un diverso. Mentre per anni mia madre ha pensato che la mia omosessualità fosse una malattia» confessa senza vergogna Giuliana. Tutti preconcetti che si sono sciolti con fatica, passo dopo passo: «Per mio padre sbandierare la nostra vita non serve e anche per l’unione civile, le battaglie con la burocrazia e la gravidanza non ha fatto esattamente i salti di gioia. Lui parte da questo assunto: più persone sanno che siamo lesbiche e madri e più siamo in pericolo». Come se potesse arrivare da un momento all’altro un nuovo Hitler che prende di mira sua figlia e la sua compagna.

    «Forse anche per questo le paure si sono sedimentate così in profondità che siamo arrivate fino a quarant’anni per fare le nostre scelte», aggiunge Laura che invece ci ha messo mesi a spiegare la gravidanza attraverso un donatore ai suoi genitori. Ora però i quattro nonni sono innamorati del nipote.

    IL PARROCCO DICE NO

    Ogni decisione è una corsa ad ostacoli. «Siamo entrambe credenti e abbiamo deciso come ogni coppia di andare nella nostra parrocchia in zona Mac Mahon per il battesimo di Dario. Abbiamo spiegato il senso della nostra famiglia ma Don Carlo ha fatto un mare di obiezioni: Dio creò l’uomo e la donna per vivere insieme e non donna e donna, ripeteva, o usava passaggi della Bibbia che condannano la sodomia. Mentre noi rispondevamo con frasi di Gesù sull'amore».

    Un braccio di ferro a colpi di citazioni delle sacre scritture che si è concluso con una sentenza senza appelli: «Voi non siete e non sarete mai una famiglia». Una sberla in faccia che dopo l’iniziale bruciatura non le ha scoraggiate. Hanno bussato in un’altra parrocchia del quartiere e hanno conosciuto don Giuseppe che le ha accolte senza preconcetti. Il prete ha ingaggiato la sua battaglia personale con la Curia che non poteva rifiutare il battesimo ma lo voleva in tono minore, defilato, solo la famiglia e il bambino. Invece grazie alla determinazione del prete la cerimonia è comunitaria, con altre tre famiglie e Laura ha potuto firmare sulla riga del padre nel certificato di battesimo. Un piccolo significativo passo verso la legittimazione delle coppie di fatto.

    Il loro successo davanti alla Chiesa che vorrebbe rifiutarle lo raccontano così:«Abbiamo fatto una richiesta ad hoc per battezzarlo e in Curia speravano che firmasse solo Giuliana ma invece abbiamo sottoscritto entrambe queste parole: Insieme vogliamo educarlo alla fede cattolica. Insieme vogliamo crescerlo».
     
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  2. Keybook
     
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    Che bel racconto Gil.

    Lascia un pò di amarezza, ma anche tanta speranza.

    Forza Dario, e le sue mamme....prima o poi le cose cambiano!
     
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1 replies since 9/2/2015, 00:06   31 views
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